Pier Paolo Pasolini non ha mai avuto nei riguardi della televisione un atteggiamento di simpatia, nel senso che ha guardato con sospetto ciò che la televisione rappresentava: un formidabile strumento per mezzo del quale il potere uniforma le coscienze, creando o, forse è il caso di dire, cancellando l’opinione. In un periodo del 1966, a seguito di un problema agli occhi, fu costretto a rimanere a casa, a non sforzare la vista, per cui, spinto anche dal tedio, seguì con attenzione le trasmissioni televisive e ma- turò alcune idee, trasmesseci per mezzo di uno scritto, dal significativo titolo: Contro la televisione. Il testo in questione, vera e propria “invettiva” antitelevisiva, è un inedito, dal momento che, pur presentandosi confezionato ai curatori dell’opera, con vari emendamenti apportati a penna dal suo autore, è stato oggetto di lettura in una precisa circostanza. Nell’anno summenzionato la Rai aveva trasmesso, nei giorni 6-8 maggio, il film San Francesco di Liliana Cavani. Pasolini partecipò ad un dibattito sul film, di cui la televisione fu committente, e lesse per l’appunto lo scritto cui aveva attribuito il titolo suddetto. Le considerazioni di Pasolini presentano un indubbio interesse e sono, nonostante i tratti di livore del suo discorso, assolutamente pertinenti circa l’azione politica della comunicazione televisiva, funzionale al potere per rafforzarsi attraverso la manipolazione delle coscienze da uniformare e rendere anonime. Ma, al di là di ciò, emerge una questione di più rilevante portata: l’assenza di una qualsiasi forma di eticità da parte del linguaggio televisivo e più in generale dei media. Nelle pagine che seguiranno intendiamo interrogarci sulla possibilità di attuazione di un modello linguistico-discorsivo capace di rendere efficace un’etica della comunicazione, che non sia progettuale e dunque dialettica, ma interna al detto.
La parola come simulacro della presenza
GARRITANO, Francesco
2012-01-01
Abstract
Pier Paolo Pasolini non ha mai avuto nei riguardi della televisione un atteggiamento di simpatia, nel senso che ha guardato con sospetto ciò che la televisione rappresentava: un formidabile strumento per mezzo del quale il potere uniforma le coscienze, creando o, forse è il caso di dire, cancellando l’opinione. In un periodo del 1966, a seguito di un problema agli occhi, fu costretto a rimanere a casa, a non sforzare la vista, per cui, spinto anche dal tedio, seguì con attenzione le trasmissioni televisive e ma- turò alcune idee, trasmesseci per mezzo di uno scritto, dal significativo titolo: Contro la televisione. Il testo in questione, vera e propria “invettiva” antitelevisiva, è un inedito, dal momento che, pur presentandosi confezionato ai curatori dell’opera, con vari emendamenti apportati a penna dal suo autore, è stato oggetto di lettura in una precisa circostanza. Nell’anno summenzionato la Rai aveva trasmesso, nei giorni 6-8 maggio, il film San Francesco di Liliana Cavani. Pasolini partecipò ad un dibattito sul film, di cui la televisione fu committente, e lesse per l’appunto lo scritto cui aveva attribuito il titolo suddetto. Le considerazioni di Pasolini presentano un indubbio interesse e sono, nonostante i tratti di livore del suo discorso, assolutamente pertinenti circa l’azione politica della comunicazione televisiva, funzionale al potere per rafforzarsi attraverso la manipolazione delle coscienze da uniformare e rendere anonime. Ma, al di là di ciò, emerge una questione di più rilevante portata: l’assenza di una qualsiasi forma di eticità da parte del linguaggio televisivo e più in generale dei media. Nelle pagine che seguiranno intendiamo interrogarci sulla possibilità di attuazione di un modello linguistico-discorsivo capace di rendere efficace un’etica della comunicazione, che non sia progettuale e dunque dialettica, ma interna al detto.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.