Nell’affrontare una modalità di punire che non è un residuo del passato ma una invenzione del ‘92, questo contributo argomenta specificatamente sul legame diretto tra lacune del welfare state e crisi di legalità. In particolare, si indaga sul nesso causale tra assenze, carenze e non efficace gestione delle politiche sociali e rispetto delle leggi, innestando così il radicamento dell’economia criminale nelle regioni del Sud. Infatti, in Italia di fronte all’aumento della criminalità, anziché disegnare e realizzare, come le migliori prassi e teorie suggeriscono, nuove politiche sociali, basandosi anche sull’esperienza dei paesi del Nord Europa, sono state implementate politiche sempre più punitive fino ad arrivare alla legalizzazione della tortura del fine pena mai. Nel dibattito sociologico il problema della pena carceraria all’ergastolo integrale, senza sconti né benefici, è stato fino ad oggi poco dibattuto, mentre sulla sua incostituzionalità sussistono autorevoli argomentazioni [Cigolini: 1958; Senese: 2009; Pugiotto: 2011]. L’ipotesi da cui parto è che l’insuccesso delle politiche sociali ha acuito ed intensificato il fenomeno criminale, in particolare quello organizzato. Tant’è che in questo saggio mi chiedo in che misura è forte e giusto uno Stato che reagisce comminando pene perpetue e indeterminate a troppi figli delle città del Sud su cui ricadono, senza alcuna contrapposizione, cultura mafiosa e forza senza giustizia da parte dello Stato. Pre-disposte in maniera costitutiva, largo consenso alle mafie e conseguenti risposte emergenziali, queste ultime hanno oggi travalicato l’uso della forza legittima, anziché dare risposte di giustizia. Si è creata così una relazione inversamente proporzionale tra forza della criminalità e forza politica dello Stato. La tirannia su cui voglio riflettere, si origina proprio da questa debolezza che ha indotto lo Stato a rispondere agli illegalismi che non deve tollerare, controbattendo con l’abuso di penalità: la prigione è un modo per segnare i limiti della tolleranza, di lasciar spazio ad alcuni, di esercitare pressioni su altri, di escluderne una parte [Foucault: 1976]. Anche se il più saggio dei legislatori consigliava che, per il bene degli uomini bisogna spesso ingannarli [Pascal, 2008: 99], la prigione per tutta la vita già esiste per determinati reati eppure viene continuamente invocata come soluzione non applicata. Sistemare in prigione per tutta la vita soggetti ritenuti estranei al corpo sociale, stride con i postulati del concetto di persona. Studi di caso di ergastolani ostativi offrono spunti di riflessione su un universo il cui profilo è quello di giovani del Sud che hanno già scontato dai venti ai quarant’anni di galera, le cui condizioni familiari e sociali hanno giocato un ruolo importante nel determinare coscienze, senso di legalità e rispetto dello Stato, il quale invece si deresponsabilizza rispetto a schiere di manovalanze a disposizione delle organizzazioni criminali. La pena di morte in vita è una punizione che moltiplica il male, riproduce ingiustizie in serie oltre a non essere per nulla sinonimo di progresso. Inoltre, l’ergastolo ostativo è rovinoso, funzionale a quello Stato che non vuole mostrarsi nel novero dei paesi che contemplano l’uccisione di rei. Nelle conclusioni propugno una prospettiva abolizionista dell’ergastolo, in particolare di quello ostativo, che sposti il focus dalla politica criminale alla politica sociale. Già nel Rapporto governativo svedese del 1982 si leggeva che nel complesso, operare per una società solidale, con una migliore e più giusta distribuzione di salari, alloggi, istruzione, condizioni di lavoro e cultura, è un’azione adeguata a prevenire i rischi di disadattamento sociale, il quale spesso produce condizioni favorevoli alla criminalità, e perciò è più significativa della reazione penale a crimini già commessi [Regeringens proposition, 1982]. E’ essenziale per qualsiasi strategia di contrasto del crimine organizzato, riuscire ad affrontarne le cause per trasformare comportamenti criminali e aspirare a fare qualcosa in più rispetto al solo contenimento dei rei dentro le strutture carcerarie, perché la radice dei comportamenti mafiosi non alberga soltanto nei singoli individui che commettono atti criminali.

Dall’insuccesso delle politiche sociali all’estrema volontà di punire: l’ergastolo ostativo e le sue contraddizioni

GARREFFA, FRANCA
2013-01-01

Abstract

Nell’affrontare una modalità di punire che non è un residuo del passato ma una invenzione del ‘92, questo contributo argomenta specificatamente sul legame diretto tra lacune del welfare state e crisi di legalità. In particolare, si indaga sul nesso causale tra assenze, carenze e non efficace gestione delle politiche sociali e rispetto delle leggi, innestando così il radicamento dell’economia criminale nelle regioni del Sud. Infatti, in Italia di fronte all’aumento della criminalità, anziché disegnare e realizzare, come le migliori prassi e teorie suggeriscono, nuove politiche sociali, basandosi anche sull’esperienza dei paesi del Nord Europa, sono state implementate politiche sempre più punitive fino ad arrivare alla legalizzazione della tortura del fine pena mai. Nel dibattito sociologico il problema della pena carceraria all’ergastolo integrale, senza sconti né benefici, è stato fino ad oggi poco dibattuto, mentre sulla sua incostituzionalità sussistono autorevoli argomentazioni [Cigolini: 1958; Senese: 2009; Pugiotto: 2011]. L’ipotesi da cui parto è che l’insuccesso delle politiche sociali ha acuito ed intensificato il fenomeno criminale, in particolare quello organizzato. Tant’è che in questo saggio mi chiedo in che misura è forte e giusto uno Stato che reagisce comminando pene perpetue e indeterminate a troppi figli delle città del Sud su cui ricadono, senza alcuna contrapposizione, cultura mafiosa e forza senza giustizia da parte dello Stato. Pre-disposte in maniera costitutiva, largo consenso alle mafie e conseguenti risposte emergenziali, queste ultime hanno oggi travalicato l’uso della forza legittima, anziché dare risposte di giustizia. Si è creata così una relazione inversamente proporzionale tra forza della criminalità e forza politica dello Stato. La tirannia su cui voglio riflettere, si origina proprio da questa debolezza che ha indotto lo Stato a rispondere agli illegalismi che non deve tollerare, controbattendo con l’abuso di penalità: la prigione è un modo per segnare i limiti della tolleranza, di lasciar spazio ad alcuni, di esercitare pressioni su altri, di escluderne una parte [Foucault: 1976]. Anche se il più saggio dei legislatori consigliava che, per il bene degli uomini bisogna spesso ingannarli [Pascal, 2008: 99], la prigione per tutta la vita già esiste per determinati reati eppure viene continuamente invocata come soluzione non applicata. Sistemare in prigione per tutta la vita soggetti ritenuti estranei al corpo sociale, stride con i postulati del concetto di persona. Studi di caso di ergastolani ostativi offrono spunti di riflessione su un universo il cui profilo è quello di giovani del Sud che hanno già scontato dai venti ai quarant’anni di galera, le cui condizioni familiari e sociali hanno giocato un ruolo importante nel determinare coscienze, senso di legalità e rispetto dello Stato, il quale invece si deresponsabilizza rispetto a schiere di manovalanze a disposizione delle organizzazioni criminali. La pena di morte in vita è una punizione che moltiplica il male, riproduce ingiustizie in serie oltre a non essere per nulla sinonimo di progresso. Inoltre, l’ergastolo ostativo è rovinoso, funzionale a quello Stato che non vuole mostrarsi nel novero dei paesi che contemplano l’uccisione di rei. Nelle conclusioni propugno una prospettiva abolizionista dell’ergastolo, in particolare di quello ostativo, che sposti il focus dalla politica criminale alla politica sociale. Già nel Rapporto governativo svedese del 1982 si leggeva che nel complesso, operare per una società solidale, con una migliore e più giusta distribuzione di salari, alloggi, istruzione, condizioni di lavoro e cultura, è un’azione adeguata a prevenire i rischi di disadattamento sociale, il quale spesso produce condizioni favorevoli alla criminalità, e perciò è più significativa della reazione penale a crimini già commessi [Regeringens proposition, 1982]. E’ essenziale per qualsiasi strategia di contrasto del crimine organizzato, riuscire ad affrontarne le cause per trasformare comportamenti criminali e aspirare a fare qualcosa in più rispetto al solo contenimento dei rei dentro le strutture carcerarie, perché la radice dei comportamenti mafiosi non alberga soltanto nei singoli individui che commettono atti criminali.
File in questo prodotto:
Non ci sono file associati a questo prodotto.

I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.

Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/20.500.11770/177259
 Attenzione

Attenzione! I dati visualizzati non sono stati sottoposti a validazione da parte dell'ateneo

Citazioni
  • ???jsp.display-item.citation.pmc??? ND
  • Scopus ND
  • ???jsp.display-item.citation.isi??? ND
social impact