Dopo l’intervento riformatore del 2003, il problema del «danno da fusione» viene ad assumere un’accresciuta rilevanza. Regole analoghe a quella dell’art. 2504-quater c.c. sono, infatti, ora previste per l’invalidità della trasformazione (art. 2500-bis c.c.) e per l’invalidità delle delibere di aumento e riduzione reale del capitale sociale, nonché di quella di emissione di obbligazioni da parte di società aperte (art. 2379-ter, comma 2°, c.c.). Queste norme riproducono quasi pedissequamente il disposto del secondo comma dell’art. 2504-quater e ricalcano, nella sostanza, anche il precetto del primo comma dello stesso articolo. Al riguardo, ben si può dire che l’art. 2504-quater ha «fatto scuola»: ovvero, che la tanto criticata regola della sanatoria dell’invalidità è stata ritenuta, evidentemente, quella meglio in grado di realizzare, anche in tema d’invalidità delle delibere assembleari, l’obiettivo di «contemperare le esigenze di tutela dei soci e […] di funzionalità e certezza dell’attività sociale» fissato dall’art. 4, lett. b, della legge delega n. 366 del 3 ottobre 2001 per le riforma del diritto societario. Ma l’impatto espansivo dell’art. 2504-quater non si limita alle due norme sopra citate: il problema del «danno da fusione» è ora diventato un minus rispetto al ben più ampio problema del «danno da atto organizzativo invalido», come dimostrato dalla nuova formulazione degli artt. 2377 e 2378 c.c.. Quanto alla prima norma, il riferimento è alla parte (comma 4°) in cui si riconosce a soci non qualificati ed a quelli che, in quanto privi del diritto di voto, non sono legittimati all’esercizio del rimedio demolitorio, la possibilità di ottenere il risarcimento dei danni ad essi cagionati dalla non conformità della deliberazione alla legge o allo statuto. Quanto alla seconda, il richiamo va alla parte (comma 2°) in cui si prevede che, qualora nel corso del processo venga meno – a seguito di trasferimenti inter vivos – il presupposto processuale legittimante l’impugnazione (ossia il possesso di una percentuale qualificata di azioni), l’annullamento della delibera impugnata non può più essere pronunciato: rimanendo salva la possibilità che il giudice si pronunci sull’eventuale risarcimento del danno, sempre che questo sia stato richiesto. Di conseguenza, dunque, il problema del rapporto che lega la tutela demolitoria (o invalidativa o reale) a quella risarcitoria (o obbligatoria) è destinato a dover essere esaminato in un contesto sistematico accresciuto: non più limitato alle sole fattispecie della fusione e della scissione. La previsione di una forma di tutela risarcitoria, apparentemente «compensativa» dell’impossibilità di esperire un’azione invalidativa conseguente al mancato possesso (originario o sopravvenuto) di una percentuale qualificata di azioni, non può non implicare un’indagine circa la funzione sostitutivo-alternativa o cumulativa delle due forme di tutela. In altre parole, uno studio circa la ratio e la natura dell’azione risarcitoria per «danni da fusione» non sembra poter prescindere da un confronto con la connessa problematica del «danno da delibera invalida». Si aggiunga a tutto ciò che l’avvenuta espansione della regola di cui all’art. 2504-quater offre nuovi spunti per poter riaprire quel dibattito, per la verità mai sopito, circa la natura della previsione contenuta nell’art. 2332 c.c. in tema di nullità della società per azioni (anch’essa di derivazione comunitaria: direttiva 68/151/CEE in tema di società nulla): nella misura in cui si individui in quest’ultima disposizione la norma ispiratrice della regola prevista per la fusione, ne deriva che la sua diretta o indiretta riproduzione in ulteriori disposizioni societarie – ivi ricompreso il nuovo art. 2434-bis c.c. concernente l’impugnazione delle deliberazioni di approvazione del bilancio – potrebbe fornire nuovi stimoli alla tesi di coloro che ne hanno riconosciuto il rango di principio generale degli atti organizzativi. La permanenza del «danno da fusione» quale problematica ancora da risolvere è tanto più evidente, quanto più si consideri che, a distanza di molto tempo dall’introduzione dell’art. 2504-quater c.c., è tuttora aperto il dibattito, non solo sull’ambito di operatività della sanatoria di cui al primo comma della norma, ma anche – e soprattutto – sui presupposti per l’esercitabilità dell’azione risarcitoria prevista dal secondo comma, su chi siano i legittimati passivi di questa azione e sulla natura della responsabilità di questi soggetti, oltre che su questioni di carattere più marcatamente procedurale, quali: la legittimazione attiva all’esercizio dell’azione risarcitoria dei soci che abbiano votato a favore della fusione o che – pur potendo impugnare la delibera assembleare – siano rimasti inerti, il termine di prescrizione per la proposizione di tale azione; il rapporto esistente tra questa e l’impugnazione. La mancanza di uniformità giurisprudenziale nella materia, così come la continua proposta di nuove teorie sono indici dello stato d’incertezza che ancora regna sull’argomento. L’unico punto fermo consiste nella necessità di individuare limiti e presupposti della tutela risarcitoria di cui al secondo comma dell’art. 2504-quater c.c. La monografia opera una rimeditazione funditus dell’intera problematica. Invero, il principale limite che è stato rinvenuto nelle trattazioni sull’argomento è di avere sottovalutato il problema del rapporto che specificamente sussiste nella fusione – e, più in generale, in tutte quelle fattispecie societarie direttamente o indirettamente riconducibili al medesimo schema – tra la tutela reale e la tutela risarcitoria. L’esame delle principali posizioni della dottrina in materia ha rivelato come, salvo rare eccezioni, sussista unanimità nel ritenere che il sacrificio degli strumenti demolitori sia giustificabile nell’ottica di privilegiare le esigenze di stabilità e di certezza, che inevitabilmente si presentano a seguito del perfezionamento di un procedimento di fusione. E dato che la preclusione all’utilizzo delle azioni invalidative non incide sull’esperibilità degli strumenti risarcitori tradizionali, un problema di «compensazione» – per i ricordati orientamenti – non si porrebbe nemmeno: tutt’al più si tratterebbe di esaminare l’estensibilità degli attuali strumenti risarcitori oltre i confini in cui sono stati finora ristretti. Non sembra, però, questa la strada per risolvere il problema del «danno da fusione», perché una siffatta lettura porta con sé il corollario di svuotare completamente di significato il secondo comma dell’art. 2504-quater: se la tutela contro i danni da fusione trova la propria fonte in altre norme dell’ordinamento (1375 c.c., 2395 c.c., 2501-quinquies c.c., ecc.), l’espressa previsione della salvezza del diritto al risarcimento dei danni contenuta nella norma de qua si rivelerebbe ridondante e, di fatto, inutile. In base alla regola che ad interpretazioni che privano di significato una norma sono preferibili interpretazioni che un significato glielo attribuiscono, all’accusa d’inutilità si è replicato riconoscendo all’azione risarcitoria da fusione natura indennitaria. Anche questa soluzione, tuttavia, non può ritenersi pienamente appagante, quanto meno nella sua impostazione metodologica e per le motivazioni che ne hanno suggerito la proposizione. Il fondamento di una siffatta azione non può essere rinvenuto semplicemente in un’ottica di opportunità: altre devono essere le basi su cui fondare una ricostruzione siffatta. E queste basi passano necessariamente attraverso una rielaborazione in chiave sistematica dell’intero art. 2504-quater, che – previa individuazione della ratio del primo comma della norma – consenta di valutare l’impatto della sanatoria sul profilo risarcitorio e, quindi, di risolvere il problema della portata operativa di quest’ultimo rimedio. A questo fine, un ruolo di primo piano viene inevitabilmente ricoperto dalla ricerca e dall’identificazione di quali siano gli interessi sottostanti agli strumenti demolitori il cui utilizzo viene ad essere precluso dall’iscrizione dell’atto di fusione. In altre parole, si ritiene necessario privilegiare una ricostruzione in chiave sostanzialistica, che consenta di valutare in che modo il «passaggio da una tutela di tipo reale ad una risarcitoria» incida sugli interessi al cui servizio l’ordinamento appresta i rimedi demolitori (quali l’impugnazione delle delibere assembleari ed eventualmente l’invalidazione dell’atto di fusione in base ai principi negoziali): tutto questo per trarne le dovute conseguenze in sede d’interpretazione del secondo comma dell’art. 2504-quater. E ciò perché le affermazioni secondo cui questa norma determina una «sostituzione» della tutela reale con quella risarcitoria corrono il rischio di risultare quantomeno riduttive, se motivate semplicemente con la considerazione che, stante la mancata indicazione dei legittimati passivi all’azione risarcitoria da fusione, i soggetti danneggiati disporrebbero comunque di un apparato di tutela risarcitoria più che adeguato a compensarli della privazione del diritto ad ottenere la rimozione degli effetti della fusione: è proprio questa adeguatezza, infatti, che deve essere dimostrata. Di «sostituzione di tutela» si può parlare solo là dove la tutela risarcitoria soddisfi quelle esigenze per cui era apprestata la tutela reale, compensando il danneggiato in danaro in luogo dell’impossibilitata rimozione degli effetti pregiudizievoli generati dall’atto di fusione invalido. In mancanza – considerato che le azioni risarcitorie «tradizionali» erano esperibili anche a prescindere dall’introduzione dell’art. 2504-quater, comma 2° – sarebbe più corretto qualificare tale norma come un fenomeno (non di «sostituzione», bensì) di «riduzione» di tutela. Ma questo necessariamente dovrebbe essere letto in termini d’incostituzionalità, giacché una siffatta affermazione presupporrebbe una lettura in chiave individuale dell’interesse sociale organizzativo (ossia dell’interesse per il cui soddisfacimento è attribuito ai soci il diritto d’impugnazione): ché, com’è noto, a seguito della riforma questo diritto d’impugnativa – almeno per vizi di annullamento – è divenuto una prerogativa delle sole minoranze qualificate. La ricerca di una soddisfacente soluzione interpretativa dell’art. 2504-quater non può, quindi, prescindere dallo studio (più che di quelle disposizioni che rappresentano dei meri «cloni» della norma sull’invalidità della fusione) dell’art. 2377 c.c.: in particolare, della previsione contenuta nel quarto comma della norma. Qui, invero, il problema della «sostituzione/riduzione» di tutela, per tutti quei soggetti cui l’ordinamento preclude il diritto d’impugnativa, esplode in tutta la sua rilevanza. Uno studio dedicato al problema del «danno da fusione» comporta, pertanto, la necessità di esaminare parallelamente il significato della scelta legislativa in materia d’impugnazione di delibere annullabili. L’indagine deve, allora, partire dall’esame del primo comma dell’art. 2504-quater, per approfondirne la genesi (con particolare riferimento alle sue origini comunitarie) e valutarne la ratio anche alla luce di un confronto con l’art. 2332 c.c. e con la norma del § 20 UmwG tedesco, che ha costituito il modello per il nostro. Tale compito serve a verificare, in primo luogo, se la disposizione esprima effettivamente una regola eccezionale o se essa, per contro, non concretizzi un principio generale valido per gli atti aventi efficacia organizzativa; in secondo luogo, se la preclusione all’invalidabilità della fusione sia davvero «assoluta» o se essa non incontri dei limiti che ne consentano la «relativizzazione». In questo modo dovrebbe pure essere possibile capire se forme di tutela reale sopravvivano all’iscrizione dell’atto di fusione nel registro delle imprese o se, quantomeno tramite lo strumento del risarcimento in forma specifica, non sia possibile ottenere quella medesima tutela garantita dal ricorso agli strumenti che avrebbero consentito l’invalidazione della fusione. Alla luce degli esiti della programmata ricerca potrà procedersi a studiare il rapporto tra i due commi dell’art. 2504-quater, per trarne le dovute conclusioni circa la problematica del risarcimento del danno da fusione.

La responsabilità per danni da fusione

BELTRAMI, Pierdanilo
2008-01-01

Abstract

Dopo l’intervento riformatore del 2003, il problema del «danno da fusione» viene ad assumere un’accresciuta rilevanza. Regole analoghe a quella dell’art. 2504-quater c.c. sono, infatti, ora previste per l’invalidità della trasformazione (art. 2500-bis c.c.) e per l’invalidità delle delibere di aumento e riduzione reale del capitale sociale, nonché di quella di emissione di obbligazioni da parte di società aperte (art. 2379-ter, comma 2°, c.c.). Queste norme riproducono quasi pedissequamente il disposto del secondo comma dell’art. 2504-quater e ricalcano, nella sostanza, anche il precetto del primo comma dello stesso articolo. Al riguardo, ben si può dire che l’art. 2504-quater ha «fatto scuola»: ovvero, che la tanto criticata regola della sanatoria dell’invalidità è stata ritenuta, evidentemente, quella meglio in grado di realizzare, anche in tema d’invalidità delle delibere assembleari, l’obiettivo di «contemperare le esigenze di tutela dei soci e […] di funzionalità e certezza dell’attività sociale» fissato dall’art. 4, lett. b, della legge delega n. 366 del 3 ottobre 2001 per le riforma del diritto societario. Ma l’impatto espansivo dell’art. 2504-quater non si limita alle due norme sopra citate: il problema del «danno da fusione» è ora diventato un minus rispetto al ben più ampio problema del «danno da atto organizzativo invalido», come dimostrato dalla nuova formulazione degli artt. 2377 e 2378 c.c.. Quanto alla prima norma, il riferimento è alla parte (comma 4°) in cui si riconosce a soci non qualificati ed a quelli che, in quanto privi del diritto di voto, non sono legittimati all’esercizio del rimedio demolitorio, la possibilità di ottenere il risarcimento dei danni ad essi cagionati dalla non conformità della deliberazione alla legge o allo statuto. Quanto alla seconda, il richiamo va alla parte (comma 2°) in cui si prevede che, qualora nel corso del processo venga meno – a seguito di trasferimenti inter vivos – il presupposto processuale legittimante l’impugnazione (ossia il possesso di una percentuale qualificata di azioni), l’annullamento della delibera impugnata non può più essere pronunciato: rimanendo salva la possibilità che il giudice si pronunci sull’eventuale risarcimento del danno, sempre che questo sia stato richiesto. Di conseguenza, dunque, il problema del rapporto che lega la tutela demolitoria (o invalidativa o reale) a quella risarcitoria (o obbligatoria) è destinato a dover essere esaminato in un contesto sistematico accresciuto: non più limitato alle sole fattispecie della fusione e della scissione. La previsione di una forma di tutela risarcitoria, apparentemente «compensativa» dell’impossibilità di esperire un’azione invalidativa conseguente al mancato possesso (originario o sopravvenuto) di una percentuale qualificata di azioni, non può non implicare un’indagine circa la funzione sostitutivo-alternativa o cumulativa delle due forme di tutela. In altre parole, uno studio circa la ratio e la natura dell’azione risarcitoria per «danni da fusione» non sembra poter prescindere da un confronto con la connessa problematica del «danno da delibera invalida». Si aggiunga a tutto ciò che l’avvenuta espansione della regola di cui all’art. 2504-quater offre nuovi spunti per poter riaprire quel dibattito, per la verità mai sopito, circa la natura della previsione contenuta nell’art. 2332 c.c. in tema di nullità della società per azioni (anch’essa di derivazione comunitaria: direttiva 68/151/CEE in tema di società nulla): nella misura in cui si individui in quest’ultima disposizione la norma ispiratrice della regola prevista per la fusione, ne deriva che la sua diretta o indiretta riproduzione in ulteriori disposizioni societarie – ivi ricompreso il nuovo art. 2434-bis c.c. concernente l’impugnazione delle deliberazioni di approvazione del bilancio – potrebbe fornire nuovi stimoli alla tesi di coloro che ne hanno riconosciuto il rango di principio generale degli atti organizzativi. La permanenza del «danno da fusione» quale problematica ancora da risolvere è tanto più evidente, quanto più si consideri che, a distanza di molto tempo dall’introduzione dell’art. 2504-quater c.c., è tuttora aperto il dibattito, non solo sull’ambito di operatività della sanatoria di cui al primo comma della norma, ma anche – e soprattutto – sui presupposti per l’esercitabilità dell’azione risarcitoria prevista dal secondo comma, su chi siano i legittimati passivi di questa azione e sulla natura della responsabilità di questi soggetti, oltre che su questioni di carattere più marcatamente procedurale, quali: la legittimazione attiva all’esercizio dell’azione risarcitoria dei soci che abbiano votato a favore della fusione o che – pur potendo impugnare la delibera assembleare – siano rimasti inerti, il termine di prescrizione per la proposizione di tale azione; il rapporto esistente tra questa e l’impugnazione. La mancanza di uniformità giurisprudenziale nella materia, così come la continua proposta di nuove teorie sono indici dello stato d’incertezza che ancora regna sull’argomento. L’unico punto fermo consiste nella necessità di individuare limiti e presupposti della tutela risarcitoria di cui al secondo comma dell’art. 2504-quater c.c. La monografia opera una rimeditazione funditus dell’intera problematica. Invero, il principale limite che è stato rinvenuto nelle trattazioni sull’argomento è di avere sottovalutato il problema del rapporto che specificamente sussiste nella fusione – e, più in generale, in tutte quelle fattispecie societarie direttamente o indirettamente riconducibili al medesimo schema – tra la tutela reale e la tutela risarcitoria. L’esame delle principali posizioni della dottrina in materia ha rivelato come, salvo rare eccezioni, sussista unanimità nel ritenere che il sacrificio degli strumenti demolitori sia giustificabile nell’ottica di privilegiare le esigenze di stabilità e di certezza, che inevitabilmente si presentano a seguito del perfezionamento di un procedimento di fusione. E dato che la preclusione all’utilizzo delle azioni invalidative non incide sull’esperibilità degli strumenti risarcitori tradizionali, un problema di «compensazione» – per i ricordati orientamenti – non si porrebbe nemmeno: tutt’al più si tratterebbe di esaminare l’estensibilità degli attuali strumenti risarcitori oltre i confini in cui sono stati finora ristretti. Non sembra, però, questa la strada per risolvere il problema del «danno da fusione», perché una siffatta lettura porta con sé il corollario di svuotare completamente di significato il secondo comma dell’art. 2504-quater: se la tutela contro i danni da fusione trova la propria fonte in altre norme dell’ordinamento (1375 c.c., 2395 c.c., 2501-quinquies c.c., ecc.), l’espressa previsione della salvezza del diritto al risarcimento dei danni contenuta nella norma de qua si rivelerebbe ridondante e, di fatto, inutile. In base alla regola che ad interpretazioni che privano di significato una norma sono preferibili interpretazioni che un significato glielo attribuiscono, all’accusa d’inutilità si è replicato riconoscendo all’azione risarcitoria da fusione natura indennitaria. Anche questa soluzione, tuttavia, non può ritenersi pienamente appagante, quanto meno nella sua impostazione metodologica e per le motivazioni che ne hanno suggerito la proposizione. Il fondamento di una siffatta azione non può essere rinvenuto semplicemente in un’ottica di opportunità: altre devono essere le basi su cui fondare una ricostruzione siffatta. E queste basi passano necessariamente attraverso una rielaborazione in chiave sistematica dell’intero art. 2504-quater, che – previa individuazione della ratio del primo comma della norma – consenta di valutare l’impatto della sanatoria sul profilo risarcitorio e, quindi, di risolvere il problema della portata operativa di quest’ultimo rimedio. A questo fine, un ruolo di primo piano viene inevitabilmente ricoperto dalla ricerca e dall’identificazione di quali siano gli interessi sottostanti agli strumenti demolitori il cui utilizzo viene ad essere precluso dall’iscrizione dell’atto di fusione. In altre parole, si ritiene necessario privilegiare una ricostruzione in chiave sostanzialistica, che consenta di valutare in che modo il «passaggio da una tutela di tipo reale ad una risarcitoria» incida sugli interessi al cui servizio l’ordinamento appresta i rimedi demolitori (quali l’impugnazione delle delibere assembleari ed eventualmente l’invalidazione dell’atto di fusione in base ai principi negoziali): tutto questo per trarne le dovute conseguenze in sede d’interpretazione del secondo comma dell’art. 2504-quater. E ciò perché le affermazioni secondo cui questa norma determina una «sostituzione» della tutela reale con quella risarcitoria corrono il rischio di risultare quantomeno riduttive, se motivate semplicemente con la considerazione che, stante la mancata indicazione dei legittimati passivi all’azione risarcitoria da fusione, i soggetti danneggiati disporrebbero comunque di un apparato di tutela risarcitoria più che adeguato a compensarli della privazione del diritto ad ottenere la rimozione degli effetti della fusione: è proprio questa adeguatezza, infatti, che deve essere dimostrata. Di «sostituzione di tutela» si può parlare solo là dove la tutela risarcitoria soddisfi quelle esigenze per cui era apprestata la tutela reale, compensando il danneggiato in danaro in luogo dell’impossibilitata rimozione degli effetti pregiudizievoli generati dall’atto di fusione invalido. In mancanza – considerato che le azioni risarcitorie «tradizionali» erano esperibili anche a prescindere dall’introduzione dell’art. 2504-quater, comma 2° – sarebbe più corretto qualificare tale norma come un fenomeno (non di «sostituzione», bensì) di «riduzione» di tutela. Ma questo necessariamente dovrebbe essere letto in termini d’incostituzionalità, giacché una siffatta affermazione presupporrebbe una lettura in chiave individuale dell’interesse sociale organizzativo (ossia dell’interesse per il cui soddisfacimento è attribuito ai soci il diritto d’impugnazione): ché, com’è noto, a seguito della riforma questo diritto d’impugnativa – almeno per vizi di annullamento – è divenuto una prerogativa delle sole minoranze qualificate. La ricerca di una soddisfacente soluzione interpretativa dell’art. 2504-quater non può, quindi, prescindere dallo studio (più che di quelle disposizioni che rappresentano dei meri «cloni» della norma sull’invalidità della fusione) dell’art. 2377 c.c.: in particolare, della previsione contenuta nel quarto comma della norma. Qui, invero, il problema della «sostituzione/riduzione» di tutela, per tutti quei soggetti cui l’ordinamento preclude il diritto d’impugnativa, esplode in tutta la sua rilevanza. Uno studio dedicato al problema del «danno da fusione» comporta, pertanto, la necessità di esaminare parallelamente il significato della scelta legislativa in materia d’impugnazione di delibere annullabili. L’indagine deve, allora, partire dall’esame del primo comma dell’art. 2504-quater, per approfondirne la genesi (con particolare riferimento alle sue origini comunitarie) e valutarne la ratio anche alla luce di un confronto con l’art. 2332 c.c. e con la norma del § 20 UmwG tedesco, che ha costituito il modello per il nostro. Tale compito serve a verificare, in primo luogo, se la disposizione esprima effettivamente una regola eccezionale o se essa, per contro, non concretizzi un principio generale valido per gli atti aventi efficacia organizzativa; in secondo luogo, se la preclusione all’invalidabilità della fusione sia davvero «assoluta» o se essa non incontri dei limiti che ne consentano la «relativizzazione». In questo modo dovrebbe pure essere possibile capire se forme di tutela reale sopravvivano all’iscrizione dell’atto di fusione nel registro delle imprese o se, quantomeno tramite lo strumento del risarcimento in forma specifica, non sia possibile ottenere quella medesima tutela garantita dal ricorso agli strumenti che avrebbero consentito l’invalidazione della fusione. Alla luce degli esiti della programmata ricerca potrà procedersi a studiare il rapporto tra i due commi dell’art. 2504-quater, per trarne le dovute conclusioni circa la problematica del risarcimento del danno da fusione.
2008
978-88-348-8740-0
File in questo prodotto:
Non ci sono file associati a questo prodotto.

I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.

Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/20.500.11770/185063
 Attenzione

Attenzione! I dati visualizzati non sono stati sottoposti a validazione da parte dell'ateneo

Citazioni
  • ???jsp.display-item.citation.pmc??? ND
  • Scopus ND
  • ???jsp.display-item.citation.isi??? ND
social impact