Vite da cani (ma non troppo). Pet partnership come progetto di evasione da celle e gabbie Il contributo, a partire dalla mole di progetti applicativi e di ricerca accumulati negli ultimi decenni, illustra gli effetti della pet therapy (Levinson, 1962) realizzata in contesti carcerari, in termini di benefici per i detenuti e per la valenza attribuibile al partner animale, in questo caso il cane. La pet therapy è una forma di co-terapia che si attua con persone che vivono un determinato disagio a livello fisico, psichico o sociale (Scheggi, 2006; Krom Fournier et al. 2007).e si inquadra all’interno di una vasta cornice disciplinare; viene condotta grazie a un’equipe qualificata, formata da vari esperti i quali operano nel rispetto dei principi generali della Carta di Modena e con l’ausilio di un animale nel ruolo di cooperatore. L’ipotesi è che la pet therapy migliori la condizione di detenzione dei detenuti poichè il valore della relazione uomo-animale insegna alle persone ristrette a rapportarsi in maniera paziente e responsabile. I detenuti hanno dunque la possibilità di abituarsi a questi comportamenti e, possibilmente, utilizzarli anche nei confronti degli operatori penitenziari con i quali sono costretti a relazionarsi in condizioni difficili. L’introduzione dei cani nei contesti penitenziari, inoltre, suscita interesse prefigurando una possibile diminuzione della violenza in carcere e un aumento del benessere per tutti gli attori penitenziari in quanto l’interazione con gli animali produce chiari benefici terapeutici, segnatamente: incremento delle relazioni interpersonali, valorizzazione di eventuali capacità residue, rafforzamento dell’autostima e delle emozioni positive, riduzione nel consumo di farmaci, miglioramento dell’umore, riduzione dell’ansia e della sensazione di solitudine, potenziamento della memoria, maggiore entusiasmo e vitalità tra i detenuti, maggiore responsabilità nel valutare i reati commessi. Utilizzando il cane per la realizzazione di attività volte a rendere il detenuto più consapevole di sé, delle proprie emozioni e dei propri sentimenti è infatti possibile controllare le emozioni negative e sviluppare la capacità di sfruttare quelle positive. Inoltre, attraverso la pet therapy vi sarebbe un incremento di interesse nei confronti dei rapporti affettivi fra detenuto e familiari, poiché i cani addestrati, messi a disposizione dei figli dei detenuti affinché li accompagnino durante la loro permanenza in carcere, possono rendere il momento del colloquio maggiormente piacevole, favorendo così lo sviluppo dei rapporti tra i detenuti e i propri figli. Se si utilizzano cani che provengono dai canili o da associazioni di volontariato dedite a porre in salvo i randagi, l’ulteriore contributo di questa pratica è la riduzione del tasso di cani senza padrone nel territorio di implementazione dei progetti (senza contare gli effetti positivi che un sodalizio tra reclusi “a due piedi e a quattro zampe” può sortire soprattutto nel caso di cani che abbiano un passato rinchiuso nei canili). Quindi, si favoriscono nuovi metodi per la lotta al randagismo diffondendo la cultura dell’importanza del rapporto uomo-animale oltre ad aumentare il potere contrattuale delle associazioni. Pertanto, i punti di forza della pet therapy in carcere possono essere individuati sia in associazioni pronte a riformare i progetti in campo penitenziario destinati ai detenuti superando lo scetticismo per la realizzazione di progetti innovativi, sia in associazioni che si occupano della lotta al randagismo. Tra i punti di debolezza, invece, vi è l’attuale sovraffollamento degli istituti penitenziari. Nel caso specifico che qui si tratta, ossia esperienze di pet therapy condotte in carcere con i cani, il segmento applicativo per i detenuti non riguarda solo l’area emozionale, fisica e psichica ma anche formativa e assistenziale, volta al futuro inserimento dei detenuti nel mondo del lavoro . Gli obiettivi che si possono raggiungere riguardano infatti l’acquisizione di una professionalità e il trasferimento di esperienze significative attraverso il conseguimento di competenze spendibili nel mondo del lavoro. Il riferimento è a tutti quei settori lavorativi connessi alla presenza di animali grazie all’istituzione in carcere di corsi propedeutici, di base e avanzati indirizzati a formare operatori di pet therapy, educatori cinofili, esperti di educazione di animali in supporto ai “proprietari”, operatori di pensioni per cani, esperti di allevamento di alcune razze, operatori di asilo per cani (un luogo in cui lasciare il proprio cane ogni giorno quando si è a lavoro o quando si ha la necessità di lasciarlo solo per molto tempo), corsi per dog taxi (pensiamo al trasferimento e sepoltura dei cani), noleggio nursery per i cani in procinto di partorire . In generale, è emerso che i progetti di pet therapy in carcere non solo aumentano il numero di richieste da parte dei detenuti di partecipare a progetti “rieducativi” e di reinserimento lavorativo ma aumentano anche i progetti di integrazione e risocializzazione dei detenuti in ambito carcerario oltre a diminuire i tassi di recidiva. Per i cani, invece, le opportunità potrebbero riguardare la possibilità di essere addestrati dai detenuti e introdotti più facilmente all’interno di famiglie adottive, liberandoli così dalla prigionìa del canile o dal pericolo di essere abbattuti. Cani e detenuti: una alleanza possibile verso la libertà Il debito dell’uomo rispetto alla alterità animale è radicato nell’antichità. I persiani credevano nei poteri sovrannaturali dei cani, nell’Egitto dei Faraoni il cane era ritenuto sacro, il dio greco della medicina esercitava il suo potere attraverso gli animali che riteneva sacri, cioè cani e serpenti. Con il trascorrere dei secoli, l’amore dell’uomo nei confronti degli animali ha continuato a essere decantato nella pittura, nella scultura, ma anche nella poesia e nella letteratura. Abbiamo numerose testimonianze artistico-letterarie che, insieme ai reperti archeologici e alla storiografia, evidenziano come, nella cultura greca, si consolidò la consapevolezza del benessere psico-fisico generato dalla relazione con gli animali (Pugliese, 2005). Questa consapevolezza è arrivata fino ai giorni nostri con inedite sfumature, dato che gli animali sono diventati parte integrante dell’esistenza umana, fino ad essere utilizzati come co-terapeuti nel trattamento delle malattie psico-fisiche dell’uomo. Nel 2003 il Ministero della Sanità e varie autorità hanno riconosciuto l’importanza della pet therapy, le sue finalità e i suoi scopi, legittimando l’uso degli animali in programmi di pet therapy o attività volte a lenire le sofferenze dell’uomo. La pet therapy viene definita co-terapia in quanto l’obiettivo è quello di “accompagnare” con un cane la terapia che la persona sta già affrontando per migliorare la propria condizione (Dal Negro, 1987). Durante le sedute di pet therapy è proprio l’animale a svolgere un ruolo chiave: esso è il co-terapeuta che, attraverso l’addestramento e il sostegno degli operatori presenti riesce a migliorare il benessere della persona che fruisce di tale pratica (Dal Negro, 1987). Il termine co-terapeuta viene spesso enfatizzato proprio per evitare che si possa cadere nell’errore di ritenere che la presenza di un animale, in qualsiasi situazione e in qualsiasi modalità, possa migliorare di per sé la condizione di malattia o di disagio di qualcuno. La pet therapy non è infatti concepita come terapia principale bensì di ausilio ad un’altra. In particolare, in carcere si affianca ai progetti di rieducazione e integrazione sociale dei detenuti. Chi si accinge a realizzare un progetto di pet therapy deve attenersi a una importante normativa internazionale e nazionale. Le prime esperienze di educazione assistita con gli animali iniziano a essere introdotte negli istituti di pena a partire dagli anni ’70. Nel 1976, presso il Lima State Hospital for the Criminal Insane in Ohio, David Lee, un assistente sociale psichiatrico, avviò un programma dopo aver constatato il miglioramento di alcuni pazienti che si erano presi cura di un uccello ferito trovato nel cortile della prigione. Anche se gli animali non erano ammessi nelle sezioni, i detenuti portarono il volatile nell’edificio, lo nascosero in un armadio adibito alle scope e se ne presero cura. Per la prima volta i detenuti iniziarono ad agire e a relazionarsi come un gruppo, tanto che il personale, preso atto che gli animali potevano coadiuvarli nella realizzazione di una terapia efficace, proposero uno studio per valutarne i benefici. L’ospedale condusse l’osservazione per un anno comparando due sezioni identiche: in una si utilizzarono gli animali e nell’altra no. Dai risultati emerse che il reparto che aveva impiegato gli animali, dopo un anno aveva richiesto meno farmaci e ridotto il livello di violenza. Inoltre non vi era stato nessun tentativo di suicidio mentre l’altro reparto, durante tale periodo, aveva registrato otto tentativi di equivalente suicidiario. Un’altra esperienza condotta presso il Washington Correction Center for Women, portò Kathy Quinn e il Dottor Leo Bustad a realizzare diciassette programmi di addestramento per cani. I benefici sulle detenute furono molteplici: le donne sperimentarono una maggiore autostima e svilupparono competenze spendibili; anche la comunità ottenne benefici perché i cani, che diversamente sarebbero stati abbattuti, furono invece addestrati per aiutare persone con bisogni speciali. Infatti, Sue Miller, una donna condannata per omicidio, divenne una addestratrice di cani di successo: il primo cane che addestrò venne affidato a un giovane con gravi difetti alla nascita, incapace di camminare. Il cane era addestrato principalmente per portare libri, aiutare ad affrontare ascensori e cordoli di marciapiede, raccogliere oggetti caduti. Sue Miller addestrò anche Sheba, un cane che venne affidato a una ragazza di 14 anni sofferente di gravi crisi epilettiche. Sue addestrò Sheba a riconoscere le crisi e a individuare anche gli attacchi imminenti. La ragazza, rassicurata dal cane, iniziò ad accusare un minor numero di crisi e a condurre una vita serena (Strimple, 2003). Un altro programma avviato in Virginia nel 1982 presso il Dipartimento di Correzione di Lorton, interrotto poi nel 1998 quando l’Ufficio federale delle prigioni prese il controllo della struttura, ha dimostrato che gli animali infondono interesse nei detenuti soprattutto se concorrono ad aiutarli a ottenere un posto di lavoro. Coloro che durante il corso di Assistente Tecnico di Laboratorio per Animali, fecero un buon percorso formativo, furono scelti per lavorare in un laboratorio locale. Nel corso degli anni un gran numero di detenuti, dopo aver lasciato la prigione, trovò occupazione in settori lavorativi connessi alla presenza di animali (Strimple, 2003). Joan Dalton, invece, avviò nel 1993 presso il McLaren Juvenile Correctional Facility in Oregon uno dei primi programmi in carcere con minori e cani abbandonati e maltrattati. Grazie a tale progetto denominato Project Pooch, i detenuti acquisirono competenze spendibili nella vita all’esterno del penitenziario, migliorarono il loro comportamento verso l’autorità e verso la socializzazione, dimostrarono alti livelli di crescita in aree come l’onestà, l’empatia, la comprensione, il livello di intimità e l’orgoglio (Strimple, 2003). Nel 1995 Walsh e Mertin realizzarono un programma di pet therapy con le detenute di un carcere femminile in Australia. Tale programma venne valutato attraverso un pre-test e un post-test con i quali si misuravano i livelli di autostima e di depressione delle detenute. I risultati evidenziarono che le partecipanti aumentarono l’autostima riducendo la depressione dal pre-test al post-test. Tuttavia, non venne previsto un gruppo di controllo e le misure di post-test completate quando le detenute erano in procinto di essere rilasciate dal carcere, non consentirono di accertare che il cambiamento nei livelli di autostima e di depressione fosse stato causato anche dall’imminenza del rilascio piuttosto che per effetto del programma di pet therapy (Krom Fournier A. et al., 2007). Come abbiamo visto, l’interazione con gli animali ha chiari benefici terapeutici: se i detenuti hanno anche la responsabilità di curare i cani, questo rappresenta un ulteriore passo verso la creazione di fiducia e l’aumento dell’autostima; l’interazione con gli animali, infatti, è molto utile per lo sviluppo del sé e delle relazioni sociali (Walsh, 2009; Thomas et al., 2016). Queste attività, precisamente, risollevano il senso di responsabilità dei detenuti e riducono gli stati depressivi derivanti dalla permanenza in carcere, oltre salvare i cani in quanto relazionarsi alle persone li rende più socievoli, predisponendoli maggiormente a essere adottati. È provato che anche i cani più litigiosi ricavano benefici dall’addestramento poiché sviluppano un carattere più docile, aumentando la possibilità di essere accolti da famiglie adottive. Vedere un cane aggressivo trasformarsi ispira i detenuti a tendere verso il medesimo cambiamento: cercare di diventare persone migliori. Cani e detenuti, diventando gli uni i soccorritori degli altri, hanno dunque la possibilità di riscattarsi da un’esistenza altrimenti segnata da esclusione, prigionìa e isolamento. Un esperimento attuato su 48 detenuti all’interno di una prigione maschile di media sicurezza del sud-ovest della Virginia ebbe l’obiettivo di verificare se l’interazione uomo-animale potesse modificare il loro comportamento criminale. I detenuti vennero selezionati in base ad alcuni criteri: essere in carcere da almeno 30 giorni, avere una pena residua di almeno tre mesi e non avere uno storico precedente riguardante violenza o abusi su animali. Inoltre, i detenuti dovevano dimostrare un atteggiamento positivo verso la comunità carceraria e verso il programma. I cani vennero selezionati dai rifugi locali e poi addestrati in carcere da detenuti volontari per 8/10 settimane. Durante tale periodo i detenuti dovevano provvedere ai bisogni fondamentali (cibo, riparo, cura) e educare i cani all’obbedienza. Alla fine del periodo di formazione, i cani vennero adottati da famiglie della comunità e i detenuti ricominciarono un nuovo percorso con un nuovo cane. Lo studio ha messo a confronto un gruppo di trattamento e un gruppo di controllo. Il gruppo di trattamento era composto da 24 detenuti coinvolti nel programma, mentre il gruppo di controllo era composto da 24 detenuti in lista d’attesa per il programma. Inoltre, i gruppi non furono formati casualmente ma attraverso un procedimento di selezione antecedente la ricerca. Alla fine fu dimostrato che la partecipazione al programma comportò cambiamenti psicosociali per i detenuti, bassi tassi di infrazione istituzionale, minor numero di violazione delle regole, minore recidiva e miglioramento della sensibilità sociale. Inoltre, il gruppo di trattamento mostrò progressi statisticamente significativi rispetto al gruppo di controllo: per esempio un maggiore miglioramento delle abilità sociali (Krom Fournier A. et al., 2007). Tuttavia, i risultati e le implicazioni di tale ricerca vanno considerati tenendo conto di diversi limiti, tra cui la natura sperimentale dello studio. Dunque, riteniamo che la ricerca futura in questo campo dovrà essere implementata seguendo alcune raccomandazioni: la realizzazione di un vero e proprio disegno sperimentale e l’assegnazione casuale dei detenuti ai gruppi. Studi futuri sono necessari per chiarire quale potrebbe essere un intervento clinicamente significativo per i detenuti alla luce del fatto che essi devono beneficiare di efficaci programmi di riabilitazione ai quali applicare, inoltre, criteri di controllo, monitoraggio e validazione riconosciuti dalla comunità scientifica. Dentro e fuori Gli animali non giudicano, non guardano al passato di un uomo, vivono nel presente e insegnano a fare altrettanto. I detenuti, attraverso i cani, sono in grado di costruire situazioni relazionali appaganti grazie alla creazione di spazi liberi dal giudizio e dalla competizione. Il rapporto uomo-animale rappresenta un forte stimolo che permette al detenuto di concentrare l’attenzione non più solo su sè stesso, ma anche sull’animale e sugli altri. Chi ha vissuto situazioni di isolamento, pregiudizio, etichettamento, disagio psichico ha bisogno di cambiare in meglio anche attraverso la riformulazione di nuovi valori e l’assunzione di alcune responsabilità. Prendersi cura di un cane, come emerge da una mole di esperienze e ricerche, attenua sintomi di depressione e ansia perché la relazione con gli animali determina un forte cambiamento nello stile relazionale dei detenuti, li aiuta a formulare domande per esprimere bisogni e anche a riconoscere i propri desideri grazie a una maggiore possibilità d’espressione unita a un uso più funzionale delle proprie risorse. Le Terapie Assistite con gli Animali, secondo numerosi studi, agiscono sulla motivazione, sull’amore e sulla vigilanza. L’uomo, inoltre, essendo per natura generalmente incline alle cure parentali, ha una forte tendenza a comportamenti di cura e accudimento verso gli animali e, di conseguenza, verso sè stesso. Vari studi hanno dimostrato che la relazione con gli animali interviene sui mediatori dello stress migliorando l’attività del sistema immunitario e garantendo, in tal modo, la possibilità di sconfiggere molte patologie. Il contatto con i cani stimola i detenuti al movimento e garantisce loro la possibilità di fare esercizio divertendosi, ma soprattutto recuperando quella fisicità del contatto corporeo utile a riabituarli a un contatto di intimità che potrà poi essere proiettato in futuro sugli altri. Grazie al cane il detenuto recupera una comunicazione non verbale che permette, a entrambi, di comprendersi. Il linguaggio verbale utilizzato con gli animali, infatti, è simile a quello che viene parlato con i bambini; rassicurante e calmante sia per chi parla, sia per chi ascolta.

C’è un cane in carcere che fa: e-vado verso la Libertà. Vite da cani (ma non troppo). Pet partnership come progetto di evasione da celle e gabbie

Garreffa F.
2020-01-01

Abstract

Vite da cani (ma non troppo). Pet partnership come progetto di evasione da celle e gabbie Il contributo, a partire dalla mole di progetti applicativi e di ricerca accumulati negli ultimi decenni, illustra gli effetti della pet therapy (Levinson, 1962) realizzata in contesti carcerari, in termini di benefici per i detenuti e per la valenza attribuibile al partner animale, in questo caso il cane. La pet therapy è una forma di co-terapia che si attua con persone che vivono un determinato disagio a livello fisico, psichico o sociale (Scheggi, 2006; Krom Fournier et al. 2007).e si inquadra all’interno di una vasta cornice disciplinare; viene condotta grazie a un’equipe qualificata, formata da vari esperti i quali operano nel rispetto dei principi generali della Carta di Modena e con l’ausilio di un animale nel ruolo di cooperatore. L’ipotesi è che la pet therapy migliori la condizione di detenzione dei detenuti poichè il valore della relazione uomo-animale insegna alle persone ristrette a rapportarsi in maniera paziente e responsabile. I detenuti hanno dunque la possibilità di abituarsi a questi comportamenti e, possibilmente, utilizzarli anche nei confronti degli operatori penitenziari con i quali sono costretti a relazionarsi in condizioni difficili. L’introduzione dei cani nei contesti penitenziari, inoltre, suscita interesse prefigurando una possibile diminuzione della violenza in carcere e un aumento del benessere per tutti gli attori penitenziari in quanto l’interazione con gli animali produce chiari benefici terapeutici, segnatamente: incremento delle relazioni interpersonali, valorizzazione di eventuali capacità residue, rafforzamento dell’autostima e delle emozioni positive, riduzione nel consumo di farmaci, miglioramento dell’umore, riduzione dell’ansia e della sensazione di solitudine, potenziamento della memoria, maggiore entusiasmo e vitalità tra i detenuti, maggiore responsabilità nel valutare i reati commessi. Utilizzando il cane per la realizzazione di attività volte a rendere il detenuto più consapevole di sé, delle proprie emozioni e dei propri sentimenti è infatti possibile controllare le emozioni negative e sviluppare la capacità di sfruttare quelle positive. Inoltre, attraverso la pet therapy vi sarebbe un incremento di interesse nei confronti dei rapporti affettivi fra detenuto e familiari, poiché i cani addestrati, messi a disposizione dei figli dei detenuti affinché li accompagnino durante la loro permanenza in carcere, possono rendere il momento del colloquio maggiormente piacevole, favorendo così lo sviluppo dei rapporti tra i detenuti e i propri figli. Se si utilizzano cani che provengono dai canili o da associazioni di volontariato dedite a porre in salvo i randagi, l’ulteriore contributo di questa pratica è la riduzione del tasso di cani senza padrone nel territorio di implementazione dei progetti (senza contare gli effetti positivi che un sodalizio tra reclusi “a due piedi e a quattro zampe” può sortire soprattutto nel caso di cani che abbiano un passato rinchiuso nei canili). Quindi, si favoriscono nuovi metodi per la lotta al randagismo diffondendo la cultura dell’importanza del rapporto uomo-animale oltre ad aumentare il potere contrattuale delle associazioni. Pertanto, i punti di forza della pet therapy in carcere possono essere individuati sia in associazioni pronte a riformare i progetti in campo penitenziario destinati ai detenuti superando lo scetticismo per la realizzazione di progetti innovativi, sia in associazioni che si occupano della lotta al randagismo. Tra i punti di debolezza, invece, vi è l’attuale sovraffollamento degli istituti penitenziari. Nel caso specifico che qui si tratta, ossia esperienze di pet therapy condotte in carcere con i cani, il segmento applicativo per i detenuti non riguarda solo l’area emozionale, fisica e psichica ma anche formativa e assistenziale, volta al futuro inserimento dei detenuti nel mondo del lavoro . Gli obiettivi che si possono raggiungere riguardano infatti l’acquisizione di una professionalità e il trasferimento di esperienze significative attraverso il conseguimento di competenze spendibili nel mondo del lavoro. Il riferimento è a tutti quei settori lavorativi connessi alla presenza di animali grazie all’istituzione in carcere di corsi propedeutici, di base e avanzati indirizzati a formare operatori di pet therapy, educatori cinofili, esperti di educazione di animali in supporto ai “proprietari”, operatori di pensioni per cani, esperti di allevamento di alcune razze, operatori di asilo per cani (un luogo in cui lasciare il proprio cane ogni giorno quando si è a lavoro o quando si ha la necessità di lasciarlo solo per molto tempo), corsi per dog taxi (pensiamo al trasferimento e sepoltura dei cani), noleggio nursery per i cani in procinto di partorire . In generale, è emerso che i progetti di pet therapy in carcere non solo aumentano il numero di richieste da parte dei detenuti di partecipare a progetti “rieducativi” e di reinserimento lavorativo ma aumentano anche i progetti di integrazione e risocializzazione dei detenuti in ambito carcerario oltre a diminuire i tassi di recidiva. Per i cani, invece, le opportunità potrebbero riguardare la possibilità di essere addestrati dai detenuti e introdotti più facilmente all’interno di famiglie adottive, liberandoli così dalla prigionìa del canile o dal pericolo di essere abbattuti. Cani e detenuti: una alleanza possibile verso la libertà Il debito dell’uomo rispetto alla alterità animale è radicato nell’antichità. I persiani credevano nei poteri sovrannaturali dei cani, nell’Egitto dei Faraoni il cane era ritenuto sacro, il dio greco della medicina esercitava il suo potere attraverso gli animali che riteneva sacri, cioè cani e serpenti. Con il trascorrere dei secoli, l’amore dell’uomo nei confronti degli animali ha continuato a essere decantato nella pittura, nella scultura, ma anche nella poesia e nella letteratura. Abbiamo numerose testimonianze artistico-letterarie che, insieme ai reperti archeologici e alla storiografia, evidenziano come, nella cultura greca, si consolidò la consapevolezza del benessere psico-fisico generato dalla relazione con gli animali (Pugliese, 2005). Questa consapevolezza è arrivata fino ai giorni nostri con inedite sfumature, dato che gli animali sono diventati parte integrante dell’esistenza umana, fino ad essere utilizzati come co-terapeuti nel trattamento delle malattie psico-fisiche dell’uomo. Nel 2003 il Ministero della Sanità e varie autorità hanno riconosciuto l’importanza della pet therapy, le sue finalità e i suoi scopi, legittimando l’uso degli animali in programmi di pet therapy o attività volte a lenire le sofferenze dell’uomo. La pet therapy viene definita co-terapia in quanto l’obiettivo è quello di “accompagnare” con un cane la terapia che la persona sta già affrontando per migliorare la propria condizione (Dal Negro, 1987). Durante le sedute di pet therapy è proprio l’animale a svolgere un ruolo chiave: esso è il co-terapeuta che, attraverso l’addestramento e il sostegno degli operatori presenti riesce a migliorare il benessere della persona che fruisce di tale pratica (Dal Negro, 1987). Il termine co-terapeuta viene spesso enfatizzato proprio per evitare che si possa cadere nell’errore di ritenere che la presenza di un animale, in qualsiasi situazione e in qualsiasi modalità, possa migliorare di per sé la condizione di malattia o di disagio di qualcuno. La pet therapy non è infatti concepita come terapia principale bensì di ausilio ad un’altra. In particolare, in carcere si affianca ai progetti di rieducazione e integrazione sociale dei detenuti. Chi si accinge a realizzare un progetto di pet therapy deve attenersi a una importante normativa internazionale e nazionale. Le prime esperienze di educazione assistita con gli animali iniziano a essere introdotte negli istituti di pena a partire dagli anni ’70. Nel 1976, presso il Lima State Hospital for the Criminal Insane in Ohio, David Lee, un assistente sociale psichiatrico, avviò un programma dopo aver constatato il miglioramento di alcuni pazienti che si erano presi cura di un uccello ferito trovato nel cortile della prigione. Anche se gli animali non erano ammessi nelle sezioni, i detenuti portarono il volatile nell’edificio, lo nascosero in un armadio adibito alle scope e se ne presero cura. Per la prima volta i detenuti iniziarono ad agire e a relazionarsi come un gruppo, tanto che il personale, preso atto che gli animali potevano coadiuvarli nella realizzazione di una terapia efficace, proposero uno studio per valutarne i benefici. L’ospedale condusse l’osservazione per un anno comparando due sezioni identiche: in una si utilizzarono gli animali e nell’altra no. Dai risultati emerse che il reparto che aveva impiegato gli animali, dopo un anno aveva richiesto meno farmaci e ridotto il livello di violenza. Inoltre non vi era stato nessun tentativo di suicidio mentre l’altro reparto, durante tale periodo, aveva registrato otto tentativi di equivalente suicidiario. Un’altra esperienza condotta presso il Washington Correction Center for Women, portò Kathy Quinn e il Dottor Leo Bustad a realizzare diciassette programmi di addestramento per cani. I benefici sulle detenute furono molteplici: le donne sperimentarono una maggiore autostima e svilupparono competenze spendibili; anche la comunità ottenne benefici perché i cani, che diversamente sarebbero stati abbattuti, furono invece addestrati per aiutare persone con bisogni speciali. Infatti, Sue Miller, una donna condannata per omicidio, divenne una addestratrice di cani di successo: il primo cane che addestrò venne affidato a un giovane con gravi difetti alla nascita, incapace di camminare. Il cane era addestrato principalmente per portare libri, aiutare ad affrontare ascensori e cordoli di marciapiede, raccogliere oggetti caduti. Sue Miller addestrò anche Sheba, un cane che venne affidato a una ragazza di 14 anni sofferente di gravi crisi epilettiche. Sue addestrò Sheba a riconoscere le crisi e a individuare anche gli attacchi imminenti. La ragazza, rassicurata dal cane, iniziò ad accusare un minor numero di crisi e a condurre una vita serena (Strimple, 2003). Un altro programma avviato in Virginia nel 1982 presso il Dipartimento di Correzione di Lorton, interrotto poi nel 1998 quando l’Ufficio federale delle prigioni prese il controllo della struttura, ha dimostrato che gli animali infondono interesse nei detenuti soprattutto se concorrono ad aiutarli a ottenere un posto di lavoro. Coloro che durante il corso di Assistente Tecnico di Laboratorio per Animali, fecero un buon percorso formativo, furono scelti per lavorare in un laboratorio locale. Nel corso degli anni un gran numero di detenuti, dopo aver lasciato la prigione, trovò occupazione in settori lavorativi connessi alla presenza di animali (Strimple, 2003). Joan Dalton, invece, avviò nel 1993 presso il McLaren Juvenile Correctional Facility in Oregon uno dei primi programmi in carcere con minori e cani abbandonati e maltrattati. Grazie a tale progetto denominato Project Pooch, i detenuti acquisirono competenze spendibili nella vita all’esterno del penitenziario, migliorarono il loro comportamento verso l’autorità e verso la socializzazione, dimostrarono alti livelli di crescita in aree come l’onestà, l’empatia, la comprensione, il livello di intimità e l’orgoglio (Strimple, 2003). Nel 1995 Walsh e Mertin realizzarono un programma di pet therapy con le detenute di un carcere femminile in Australia. Tale programma venne valutato attraverso un pre-test e un post-test con i quali si misuravano i livelli di autostima e di depressione delle detenute. I risultati evidenziarono che le partecipanti aumentarono l’autostima riducendo la depressione dal pre-test al post-test. Tuttavia, non venne previsto un gruppo di controllo e le misure di post-test completate quando le detenute erano in procinto di essere rilasciate dal carcere, non consentirono di accertare che il cambiamento nei livelli di autostima e di depressione fosse stato causato anche dall’imminenza del rilascio piuttosto che per effetto del programma di pet therapy (Krom Fournier A. et al., 2007). Come abbiamo visto, l’interazione con gli animali ha chiari benefici terapeutici: se i detenuti hanno anche la responsabilità di curare i cani, questo rappresenta un ulteriore passo verso la creazione di fiducia e l’aumento dell’autostima; l’interazione con gli animali, infatti, è molto utile per lo sviluppo del sé e delle relazioni sociali (Walsh, 2009; Thomas et al., 2016). Queste attività, precisamente, risollevano il senso di responsabilità dei detenuti e riducono gli stati depressivi derivanti dalla permanenza in carcere, oltre salvare i cani in quanto relazionarsi alle persone li rende più socievoli, predisponendoli maggiormente a essere adottati. È provato che anche i cani più litigiosi ricavano benefici dall’addestramento poiché sviluppano un carattere più docile, aumentando la possibilità di essere accolti da famiglie adottive. Vedere un cane aggressivo trasformarsi ispira i detenuti a tendere verso il medesimo cambiamento: cercare di diventare persone migliori. Cani e detenuti, diventando gli uni i soccorritori degli altri, hanno dunque la possibilità di riscattarsi da un’esistenza altrimenti segnata da esclusione, prigionìa e isolamento. Un esperimento attuato su 48 detenuti all’interno di una prigione maschile di media sicurezza del sud-ovest della Virginia ebbe l’obiettivo di verificare se l’interazione uomo-animale potesse modificare il loro comportamento criminale. I detenuti vennero selezionati in base ad alcuni criteri: essere in carcere da almeno 30 giorni, avere una pena residua di almeno tre mesi e non avere uno storico precedente riguardante violenza o abusi su animali. Inoltre, i detenuti dovevano dimostrare un atteggiamento positivo verso la comunità carceraria e verso il programma. I cani vennero selezionati dai rifugi locali e poi addestrati in carcere da detenuti volontari per 8/10 settimane. Durante tale periodo i detenuti dovevano provvedere ai bisogni fondamentali (cibo, riparo, cura) e educare i cani all’obbedienza. Alla fine del periodo di formazione, i cani vennero adottati da famiglie della comunità e i detenuti ricominciarono un nuovo percorso con un nuovo cane. Lo studio ha messo a confronto un gruppo di trattamento e un gruppo di controllo. Il gruppo di trattamento era composto da 24 detenuti coinvolti nel programma, mentre il gruppo di controllo era composto da 24 detenuti in lista d’attesa per il programma. Inoltre, i gruppi non furono formati casualmente ma attraverso un procedimento di selezione antecedente la ricerca. Alla fine fu dimostrato che la partecipazione al programma comportò cambiamenti psicosociali per i detenuti, bassi tassi di infrazione istituzionale, minor numero di violazione delle regole, minore recidiva e miglioramento della sensibilità sociale. Inoltre, il gruppo di trattamento mostrò progressi statisticamente significativi rispetto al gruppo di controllo: per esempio un maggiore miglioramento delle abilità sociali (Krom Fournier A. et al., 2007). Tuttavia, i risultati e le implicazioni di tale ricerca vanno considerati tenendo conto di diversi limiti, tra cui la natura sperimentale dello studio. Dunque, riteniamo che la ricerca futura in questo campo dovrà essere implementata seguendo alcune raccomandazioni: la realizzazione di un vero e proprio disegno sperimentale e l’assegnazione casuale dei detenuti ai gruppi. Studi futuri sono necessari per chiarire quale potrebbe essere un intervento clinicamente significativo per i detenuti alla luce del fatto che essi devono beneficiare di efficaci programmi di riabilitazione ai quali applicare, inoltre, criteri di controllo, monitoraggio e validazione riconosciuti dalla comunità scientifica. Dentro e fuori Gli animali non giudicano, non guardano al passato di un uomo, vivono nel presente e insegnano a fare altrettanto. I detenuti, attraverso i cani, sono in grado di costruire situazioni relazionali appaganti grazie alla creazione di spazi liberi dal giudizio e dalla competizione. Il rapporto uomo-animale rappresenta un forte stimolo che permette al detenuto di concentrare l’attenzione non più solo su sè stesso, ma anche sull’animale e sugli altri. Chi ha vissuto situazioni di isolamento, pregiudizio, etichettamento, disagio psichico ha bisogno di cambiare in meglio anche attraverso la riformulazione di nuovi valori e l’assunzione di alcune responsabilità. Prendersi cura di un cane, come emerge da una mole di esperienze e ricerche, attenua sintomi di depressione e ansia perché la relazione con gli animali determina un forte cambiamento nello stile relazionale dei detenuti, li aiuta a formulare domande per esprimere bisogni e anche a riconoscere i propri desideri grazie a una maggiore possibilità d’espressione unita a un uso più funzionale delle proprie risorse. Le Terapie Assistite con gli Animali, secondo numerosi studi, agiscono sulla motivazione, sull’amore e sulla vigilanza. L’uomo, inoltre, essendo per natura generalmente incline alle cure parentali, ha una forte tendenza a comportamenti di cura e accudimento verso gli animali e, di conseguenza, verso sè stesso. Vari studi hanno dimostrato che la relazione con gli animali interviene sui mediatori dello stress migliorando l’attività del sistema immunitario e garantendo, in tal modo, la possibilità di sconfiggere molte patologie. Il contatto con i cani stimola i detenuti al movimento e garantisce loro la possibilità di fare esercizio divertendosi, ma soprattutto recuperando quella fisicità del contatto corporeo utile a riabituarli a un contatto di intimità che potrà poi essere proiettato in futuro sugli altri. Grazie al cane il detenuto recupera una comunicazione non verbale che permette, a entrambi, di comprendersi. Il linguaggio verbale utilizzato con gli animali, infatti, è simile a quello che viene parlato con i bambini; rassicurante e calmante sia per chi parla, sia per chi ascolta.
2020
978-88-243-2649-0
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