Oggetto del saggio è l’estetica rinascimentale dello sguardo. Il suo percorso analitico e teorico unisce e pone sotto osservazione temi come la “rappresentazione” (nel senso prima ampio del termine, poi “ristretto” alla pratica teatrale italiana della prima metà del secolo), il “corpo”, lo “sguardo”, la “visione”, il “testo”. Da qui il policentrismo della disamina che va dal teatro, all’arte figurativa, alla filosofia, all’estetica che trova come luogo di condivisione la cultura cortigiana italiana di primo Cinquecento. L’attore si sdoppia nella sua iconicità visiva e, allo stesso tempo, come “incarnazione” del testo. Lo spettatore è al centro di una macchina scenica autoriflessiva, sollecitato da una drammaturgia ecfrastica che lo pone nella condizione di dilatare, facendo uso della sua immaginazione, i caratteri della relazione teatrale. La scena si trasforma in un dispositivo retorico, uno spazio “utopico” fisicamente inesistente, che lo ingloba. È il caso della Calandria di Bernardo Dovizi da Bibbiena, rappresentata a Urbino il 6 febbraio del 1513, emblema di quella che è la relazione fra il teatro di corte e la commedia erudita del primo Cinquecento. Lo spettatore si attrezza, pertanto, di una capacità “visiva” che oltrepassa i limiti dello sguardo, e lo pone in una dimensione puramente mentale dell’osservazione, un atto creativo attraverso il quale egli rintraccia mnemonicamente ciò che è materialmente inesistente sulla scena. Tuttavia, reperire meccanismi psicologici, estetici e antropologici tipici della visione, come anche fruire immagini che scaturiscono dalle parole, è possibile già nel testo drammatico, sia dal punto di vista dell’autore che dello spettatore-ascoltatore, in una relazione di causa-effetto, creazione e verifica di essa. Si pensi, infatti, ai riferimenti visuali presenti in alcune opere teatrali, come quelle di Machiavelli, Aretino, Giraldi Cinzio, Sperone Speroni.
Il ruolo dello spettatore nel teatro del Rinascimento: intrecci tra drammaturgia e immaginazione
Carlo Fanelli
2021-01-01
Abstract
Oggetto del saggio è l’estetica rinascimentale dello sguardo. Il suo percorso analitico e teorico unisce e pone sotto osservazione temi come la “rappresentazione” (nel senso prima ampio del termine, poi “ristretto” alla pratica teatrale italiana della prima metà del secolo), il “corpo”, lo “sguardo”, la “visione”, il “testo”. Da qui il policentrismo della disamina che va dal teatro, all’arte figurativa, alla filosofia, all’estetica che trova come luogo di condivisione la cultura cortigiana italiana di primo Cinquecento. L’attore si sdoppia nella sua iconicità visiva e, allo stesso tempo, come “incarnazione” del testo. Lo spettatore è al centro di una macchina scenica autoriflessiva, sollecitato da una drammaturgia ecfrastica che lo pone nella condizione di dilatare, facendo uso della sua immaginazione, i caratteri della relazione teatrale. La scena si trasforma in un dispositivo retorico, uno spazio “utopico” fisicamente inesistente, che lo ingloba. È il caso della Calandria di Bernardo Dovizi da Bibbiena, rappresentata a Urbino il 6 febbraio del 1513, emblema di quella che è la relazione fra il teatro di corte e la commedia erudita del primo Cinquecento. Lo spettatore si attrezza, pertanto, di una capacità “visiva” che oltrepassa i limiti dello sguardo, e lo pone in una dimensione puramente mentale dell’osservazione, un atto creativo attraverso il quale egli rintraccia mnemonicamente ciò che è materialmente inesistente sulla scena. Tuttavia, reperire meccanismi psicologici, estetici e antropologici tipici della visione, come anche fruire immagini che scaturiscono dalle parole, è possibile già nel testo drammatico, sia dal punto di vista dell’autore che dello spettatore-ascoltatore, in una relazione di causa-effetto, creazione e verifica di essa. Si pensi, infatti, ai riferimenti visuali presenti in alcune opere teatrali, come quelle di Machiavelli, Aretino, Giraldi Cinzio, Sperone Speroni.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.