Questo contributo elabora scientificamente la mia personale esperienza di malattia come accesso involontario, obbligato e non intenzionale alla cultura organizzativa di due diversi istituti di ricerca e cura italiani, nei quali ho ricevuto cure e assistenza medica e clinica a partire dal 2013. Tale accesso, per certi versi privilegiato e non privo di aspetti “performativi”, è stato inevitabilmente filtrato dal mio essere una paziente non ingenua , ovvero una paziente già ricercatrice sociale, i cui interessi di ricerca sono stati da sempre focalizzati sulle relazioni tra gli studi organizzativi, l’innovazione sociotecnica e la tecnoscienza. Ed è attraverso queste “lenti” che provo qui a rileggere quanto osservato, vissuto e sofferto, a partire dalla consapevolezza (e dall’assunto) che il tessuto e la trama dell’organizzare emergano nelle loro componenti culturali, costituite da artefatti materiali e immateriali e da repertori di routine, pratiche e norme . La riflessione condotta utilizza l'approccio autoetnografico dal punto di vista metodologico e gli studi sociali sulla scienza e la tecnologia dal punto di vista teorico, in intersezione con quelli organizzativi. L’accesso alle culture organizzative dei due contesti clinici in gioco parte infatti dagli artefatti sociotecnici e tecnoscientifici collocati a metà strada tra la ricerca e la cura, “punti di passaggio obbligato” nel processo diagnostico e di stadiazione della malattia. L'osservazione è condotta con la pregnanza e l’ineludibilità dello sguardo autoetnografico, che lungi dal porsi come un “ripiegamento sul/su di sé”, rappresenta nella mia esperienza di malattia, nel suo divenire e anche a posteriori, una singolare opportunità di esercizio dell’immaginazione sociologica di Charles Wright Mills.
Storie da una paziente non ingenua: culture organizzative della ricerca e della cura
Giuseppina Pellegrino
2021-01-01
Abstract
Questo contributo elabora scientificamente la mia personale esperienza di malattia come accesso involontario, obbligato e non intenzionale alla cultura organizzativa di due diversi istituti di ricerca e cura italiani, nei quali ho ricevuto cure e assistenza medica e clinica a partire dal 2013. Tale accesso, per certi versi privilegiato e non privo di aspetti “performativi”, è stato inevitabilmente filtrato dal mio essere una paziente non ingenua , ovvero una paziente già ricercatrice sociale, i cui interessi di ricerca sono stati da sempre focalizzati sulle relazioni tra gli studi organizzativi, l’innovazione sociotecnica e la tecnoscienza. Ed è attraverso queste “lenti” che provo qui a rileggere quanto osservato, vissuto e sofferto, a partire dalla consapevolezza (e dall’assunto) che il tessuto e la trama dell’organizzare emergano nelle loro componenti culturali, costituite da artefatti materiali e immateriali e da repertori di routine, pratiche e norme . La riflessione condotta utilizza l'approccio autoetnografico dal punto di vista metodologico e gli studi sociali sulla scienza e la tecnologia dal punto di vista teorico, in intersezione con quelli organizzativi. L’accesso alle culture organizzative dei due contesti clinici in gioco parte infatti dagli artefatti sociotecnici e tecnoscientifici collocati a metà strada tra la ricerca e la cura, “punti di passaggio obbligato” nel processo diagnostico e di stadiazione della malattia. L'osservazione è condotta con la pregnanza e l’ineludibilità dello sguardo autoetnografico, che lungi dal porsi come un “ripiegamento sul/su di sé”, rappresenta nella mia esperienza di malattia, nel suo divenire e anche a posteriori, una singolare opportunità di esercizio dell’immaginazione sociologica di Charles Wright Mills.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.