Il mondo dell’educativo, oggi, deve confrontarsi con una dimensione del dolore problematica, quasi polimorfa: da una parte prevale ancora la tendenza ad «addomesticare» il dolore, a rimuoverlo, dall’altra il dolore diventa sempre più “pubblico” in quanto mediatico. Non a caso Illouz (2006) afferma che i social media siano diventati un tramite per dare visibilità pubblica alla sofferenza poiché il dolore mostrato pubblicamente diviene presupposto fondamentale di auto-promozione. Nell’odierna società connessa l’immersione nel caleidoscopico universo mediale rischia di spingere i giovani verso una profonda crisi di relazioni e di identità, crisi che emerge in modo significativo da quel vagabondare nomade (Maffesoli, 1997) che contraddistingue la struttura dei social media nel cui ambito appare chiara la dimensione emotiva che accompagna i ragazzi nel loro errare per la rete, ovvero il delegare alla tecnologia gli aspetti affettivi più complessi della vita. È possibile percorrere una via pedagogica che, senza rinnegare i progressi tecnologici, sia in grado di costruire un progetto educativo che insegni soprattutto ai giovani a vivere la fragilità, la sofferenza e l’idea della fine come condizioni inscindibili della vita e, dunque, come orizzonti di senso dell’esistere? In tale senso la scuola, come istituzione formativa, potrebbe porsi come quel luogo privilegiato in grado di portare avanti una vera e propria educazione affettiva, un’educazione, cioè, che sia in grado di lavorare sulla consapevolezza della forza pedagogica della fragilità, del vivere le emozioni in maniera costruttiva, nel dare loro un senso, un habitus che possa fungere da piattaforma valoriale per le giovani generazioni.
SOFFERENZA E PROGETTUALITÀ ESISTENZIALE. IL RUOLO DELLE EMOZIONI NELLA SCUOLA DELL’AFFETTIVITÀ
simona perfetti
2019-01-01
Abstract
Il mondo dell’educativo, oggi, deve confrontarsi con una dimensione del dolore problematica, quasi polimorfa: da una parte prevale ancora la tendenza ad «addomesticare» il dolore, a rimuoverlo, dall’altra il dolore diventa sempre più “pubblico” in quanto mediatico. Non a caso Illouz (2006) afferma che i social media siano diventati un tramite per dare visibilità pubblica alla sofferenza poiché il dolore mostrato pubblicamente diviene presupposto fondamentale di auto-promozione. Nell’odierna società connessa l’immersione nel caleidoscopico universo mediale rischia di spingere i giovani verso una profonda crisi di relazioni e di identità, crisi che emerge in modo significativo da quel vagabondare nomade (Maffesoli, 1997) che contraddistingue la struttura dei social media nel cui ambito appare chiara la dimensione emotiva che accompagna i ragazzi nel loro errare per la rete, ovvero il delegare alla tecnologia gli aspetti affettivi più complessi della vita. È possibile percorrere una via pedagogica che, senza rinnegare i progressi tecnologici, sia in grado di costruire un progetto educativo che insegni soprattutto ai giovani a vivere la fragilità, la sofferenza e l’idea della fine come condizioni inscindibili della vita e, dunque, come orizzonti di senso dell’esistere? In tale senso la scuola, come istituzione formativa, potrebbe porsi come quel luogo privilegiato in grado di portare avanti una vera e propria educazione affettiva, un’educazione, cioè, che sia in grado di lavorare sulla consapevolezza della forza pedagogica della fragilità, del vivere le emozioni in maniera costruttiva, nel dare loro un senso, un habitus che possa fungere da piattaforma valoriale per le giovani generazioni.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.